L’arte ha un codice preciso, un linguaggio unico capace di trasmettere emozioni, di rivelarci ciò che siamo. Un artista traduce il messaggio dell’arte in sensibilità, in possibilità, in opere in grado di lasciare un segno.
Toni Belfatto ha tradotto la sua passione in forme: con la dermopigmentazione ha dato un volto nuovo al concetto di estetica, fondendolo con l’arte medica.
Andare a fondo, guardare oltre, coniugare azioni ed emozioni trovano la sintesi in un oggetto: è la nuova vision di Toni e della DermoArt Collection, serie in edizione limitata di oggetti di design.
Opere d’arte la cui preziosità sta nell’unicità, firma distintiva del “fatto a mano e con il cuore”. Ogni oggetto sarà accompagnato da un certificato di autenticità e di proprietà in modo da rendere esclusivo l’oggetto e il rapporto diretto tra Toni e il suo nuovo proprietario.
Le serie saranno diverse nel concept, nei materiali, nelle forme, ma avranno sempre un tema comune, il primo amore di Toni: la dermopigmentazione.
Il tatuaggio artistico come prima espressione ormai millenaria, il trucco permanente e la sua capacità di armonizzare e valorizzare i volti; la tricopigmentazione, pratica di aiuto psicologico al problema delle calvizie e poi l’arte più nobile, la dermopigmentazione correttiva (o tatuaggio paramedicale), che nasconde gli inestetismi del corpo, le cicatrici, specie quelle dell’animo: tutto trova materia nell’arte.
Questi oggetti raccontano una PASSIONE che si fa ARTE, una storia straordinaria ed irripetibile, un legame prezioso e duraturo tra l’artista e chi vuole entrare da protagonista in questa storia. Questi oggetti raccontano il valore di una scelta, l’immagine nitida di un momento. Senza limiti di tempo e di spazio, la DermoArt Collection presenta gli oggetti che racchiudono le nostre storie e le nostre emozioni, come la VITA che ogni giorno affrontiamo, con i suoi ostacoli da superare e con la sua bellezza da ammirare, con gli occhi, con la testa e con il cuore.
Noi imprenditori siamo i custodi del domani. Che ci piaccia o meno, abbiamo la responsabilità di dar vita a cambiamenti duraturi nel business e nella società», ha detto una volta Scott Monette, imprenditore di successo.
Come scriveva il filosofo Adorno, ciò che caratterizza la bellezza è la capacità di conservare in sé nella forma stessa dell’opera d’arte, la memoria di tutto ciò che il mondo, dominato dal principio di identità, ha rimosso e represso, vale a dire il dolore e la sofferenza dei vinti.
Il 26 giugno a Pescara l’arte incontra la dermopigmentazione di Toni Belfatto con un evento che si terrà nella splendida cornice dell’Aurum, con la partecipazione straordinaria di Vittorio Sgarbi. DermoArt Collection è il titolo dell’iniziativa che prevede il vernissage e la presentazione del libro d’arte da collezione che raccoglie le opere tematiche esposte in galleria.
“Il mio lavoro mi dà l’opportunità di girare il mondo e di conoscere diverse persone tra le quali diversi artisti – spiega il dermopigmentista Toni Belfatto –. Così ho chiesto ad alcuni di loro di esprimere con la propria arte quello che faccio”.
Cinque gli autori – Peppino Campanella, Anastasia Campanella, Davide Scutece, Luciano D’Angelo e Alessio Palladino – che con sculture, pitture e fotografie hanno dato vita, ciascuno realizzando quattro opere, alle quattro branche della dermopigmentazione.
Due specializzazioni più estetiche: il trucco permanente, per armonizzare i volti, e il tatuaggio artistico. E due più nobili e correttive: il tatuaggio paramedicale, che nasconde le cicatrici del corpo, e la tricopigmentazione, che interviene sul problema delle calvizie.
L’evento si aprirà con la presentazione del prestigioso catalogo DermoArt, curato da Mirko Menna e Laura Oliva, con la prefazione del critico d’arte Vittorio Sgarbi. Il libro da collezione è un prodotto esclusivo che contiene l’illustrazione del progetto e la spiegazione delle opere esposte. A seguire l’inaugurazione della mostra con i lavori degli artisti che hanno rappresentato la dermopigmentazione. Ovvero quel mondo che “ha dato un volto nuovo al concetto di estetica – commenta Toni Belfatto – fondendolo con l’arte medica”. Si tratta infatti di trattamenti che consistono nell’inserire sotto pelle pigmenti di colore, così da coprire eventuali difetti e imperfezioni. Si pensi ad esempio alla ricostruzione dell’areola mammaria in seguito ad un tumore al seno oppure alla risoluzione del problema delle calvizie. Ecco perché gli interventi diventano fondamentali per sostenere psicologicamente le persone che vi ricorrono e ridare loro il benessere fisico, con la correzione dell’inestetismo, e soprattutto quello psicologico.
Le opere che hanno interpretato l’arte di Toni Belfatto, e con essa i benefici e le emozioni che generano i suoi trattamenti, rimarranno esposte all’Aurum per quattro giorni. Dopodiché alcune di queste saranno messe all’asta e parte del ricavato della vendita sarà devoluto alla Fondazione Heal, per la cura e la ricerca nell’ambito della neuro oncologia pediatrica.
DermoArt Collection è una storia unica e straordinaria che ha coinvolto attori con mestieri differenti ma accomunati dall’indole artistica del proprio lavoro e dall’opportunità costante, durante la propria attività, di guardare oltre e coniugare azioni ed emozioni. Un progetto arricchito dalla presenza del noto storico dell’arte Vittorio Sgarbi che, durante l’evento, commenterà le opere e darà voce al concetto di bellezza che, come scrive nella prefazione del libro DermoArt, “muove quel sentimento di armonia e felicità che conduce all’appagamento. E la visione di Toni Belfatto si scopre esattamente nella direzione di questo appagamento”.
Nasce a Polignano a Mare, in provincia di Bari, lo splendido borgo marino arroccato sulla scogliera adriatica. Si trasferisce a Firenze per laurearsi in Architettura nel 1988, allievo del fotografo Andreas Bossi, così torna nella sua città d’origine dove trova l’ispirazione e la luce giusta per iniziare a creare.
Quasi per gioco diventa il Maestro della Luce, realizzando lampade, fatte di pietre, conchiglie, frammenti di metallo, piombo, stagno e vetro: ma è il vetro, il vero protagonista, con cui sperimenta effetti luminosi, giochi ottici pirotecnici, tanto che le sue lampade hanno il potere di costruire e ricostruire atmosfere, evocando i riflessi del mare, le sfumature del cielo, dell’alba e dei tramonti della sua Puglia.
Nel suo vecchio frantoio in disuso, trasformato ad arte in un fantasmagorico Laboratorio delle meraviglie affacciato sul mare di Polignano, oltre alle sue creazioni, ha esposto anche opere e oggetti di altri artisti. Peppino Campanella deve la sua fama interamente alla passione per il lavoro e alla tenace convinzione di essere fondamentalmente un “artigiano”.
La sua luce d’autore viaggia in tutto il mondo e le sue opere sono esposte nelle mostre più importanti del settore light design e oggettistica d’arte, così come in molti palcoscenici di teatri italiani e set cinematografici.
VetriLuce
Nasce architetto per diventare un «artigiano contemporaneo», così si definisce Peppino Campanella. Comincia dallo studio degli ambienti, ridisegna gli spazi. Un’amica libraia di Cisternino gli aveva chiesto di arredare la sua libreria: così tra un’insegna e uno scaffale da posizionare, studia la luce e realizza gli oggetti d’arredo. Oggetti semplici, vetri incollati con silicone, pannellature di legno, materiali di scarto che transfigurano lo spazio, si accendono di luce.
Una volta l’amico poeta Guido Lepori gli aveva chiesto “per gioco” di realizzare per lui un lampadario con ciò che aveva a disposizione: qualche sasso, legnetti e vetri raccolti sulla battigia di roccia della sua Polignano, lavorati dal mare, dal sole e dalla salsedine.
«Per i primi lavori usavo molto la pietra. Quando ero sui cantieri da architetto, mi confondevo con i muratori, spaccavo e rilavoravo anche pezzi di marciapiede: ne uscivo bianco di polvere ma con la “febbre” di maneggiare la materia». Così, con l’incoraggiamento degli amici, vuole organizzare una mostra: Peppino mira al «centro» – è questo il consiglio che dà anche ai giovani che fanno questo mestiere. Nel 1996 si trasferisce nella Ville Lumière – la città delle luci appunto – con l’idea di fare una mostra. Comincia a frequentare e mostrare i suoi lavori ad atelier e gallerie d’arte: addirittura una gentile addetta del Ministero della Cultura fornisce una lista dettagliatissima di tutti i negozi e le gallerie del centro con possibilità di fare domanda per una “residenza d’artista”. Ma Parigi diventa come il «purgatorio» – ricorda Campanella: “I galleristi mi dicevano che erano oggetti di design e i designer mi dicevano che erano pezzi da galleria. Ho capito che dovevo elaborare una mia idea d’arte”. Così dirige la sua attenzione sull’altra capitale del design, Milano. Le riviste d’arredamento servono per prendere gli indirizzi – in mancanza di Google – e con il bagagliaio pieno di opere nella macchina, da buon uomo del Sud, si presenta di fronte ai negozi e alle gallerie di Milano. Un giorno Teresa Ginori di Eclectica offre un consiglio prezioso: «I miei lavori erano apprezzatissimi ma mancavano di funzionalità. Anche la sciura Pina doveva poter “cambiare” la lampadina senza chiamare un elettricista». In occasione di uno di questi viaggi a Milano con un amico Dj organizza un aperitivo “d’arte” in un bellissimo loft del centro.
Un amico dei tempi dell’Università, braccio destro di una delle Maison più famose di moda, compra una delle sue opere e così comincia a vendere in tutto il mondo. «A quel tempo lavoravo con vetri di scarto di murano, conchiglie, legni del mare ma mi accorgevo di imitare inconsapevolmente lampade d’autore che già esistevano, così andai alla ricerca di una mia linea espressiva sperimentando». Rompendo alcuni pezzi di vetro industriale, Campanella crea la prima linea di vetri taglienti, Lampade a piede libero, cocci aguzzi con vetri poveri. Cerca di intervenire nel rompere il vetro ad arte, non più accidentalmente, proprio per evitare spreco. «Mi ispirarono i “paretari” dei muretti a secco della sua Puglia per poi scoprire che così lavoravano la pietra anche gli uomini del Neolitico quando scheggiavano le selci». Pietra e vetro si impongono come elementi della sua forma d’arte, ma una sopravvive e s’impone. Solo vetro comune all’inizio, verdolino, perché richiamava la profondità del suo mare Adriatico: piccoli prismi, quarti di lente, aguzzi e taglienti ma con la potenzialità di rifrangere la luce. Queste schegge rendono morbida avvolgente la luce soprattutto adesso, dopo le lampadine a tungsteno, con il led che moltiplica l’effetto
brillantezza, senza accecare, sono un fascio di luce sensuale.
Ad esempio il Sole, il Fiore, gli animali come la Farfalla, nascono anche da errori con la fusione del vetro in cui dentro si posiziona la luce, giocando con le sproporzioni anche tra le parti. “Quando un artigiano fa un lavoro, deve caratterizzarlo con uno stile”.
L’incontro con Toni Belfatto è la consacrazione di un esercizio di stile. «Il segreto sta nel “togliere” diceva il mio professore d’Architettura, Giovanni Klaus Koenig, minimalizzare e razionalizzare è il mio futuro evolutivo» – giura Peppino Campanella. Ma alle opere suggerite dagli schizzi di Toni Belfatto, Campanella, invece, aggiunge l’estro dei suoi materiali che vivono “lussuosamente” nel suo laboratorio casa-studio, ex frantoio, a strapiombo sul mare, dove Toni ha chiesto di dare corpo e materia al suo concept. La serie VetriLuce abbandona metalli, pietra, legno per assecondare gli schizzi del dermopigmentista e farsi scultura di luce: «Ho dovuto prima capire il suo lavoro per reinventare il suo messaggio. I due seni dovevano essere attraenti, riconoscibili, stupendi, ma “feriti”, lacerati da una cicatrice: ecco allora che i vetri aguzzi erano la materia più indicata per diventare arma di seduzione. Ho lavorato quindi sui dettagli, le sfumature di colore, il contrasto bianco/nero, soprattutto per la tricopigmentazione per rendere i punti luminosi ed evidenti e perché non si perdesse l’idea originaria del disegno di Toni Belfatto». Labbra e cuore sono stati più naturali: sono nati per «un’ esplosione di rosso» come colore primario, accompagnato dagli altri colori della dermopigmentazione (il bianco, il giallo e il nero), sempre rispettando la luce perché non sembrasse artificiale così che il giallo è diventato più oro. Come l’oro dei palchetti e dei palcoscenici dei teatri che le opere di Campanella hanno impreziosito – un campo di applicazione che affascina l’artista è proprio la scenografia teatrale – si stanno studiando soluzioni per alleggerire le strutture delle luci perché devono essere esportabili e trasportabili. Il vetro, dunque, resta indiscutibilmente l’elemento principe della collezione realizzata per Toni Belfatto in nome di una ricerca lunga nel tempo e una messa in scena d’opera in cui l’Arte dialoga con la Bellezza. Sipario.
Anastasia Campanella, nasce a Conversano, ma vive e lavora a Polignano a Mare. Dopo la Maturità all’Istituto d’Arte, nel 1998 si laurea all’ Accademia di Belle Arti di Bari in Scenografia. Apprendista in un laboratorio di restauro di mobili e dipinti, realizza oggetti artistici, decorazioni, macchine teatrali e installazioni artistiche per Mostre e concorsi fino al 2001, quando lavora per 5 anni come decoratrice nell’ Atelier del Maestro Peppino Campanella, nella manifattura di “Oggetti di Luce” realizzati in stagno e vetro. Nel 2006 apre Decò a Polignano a Mare, negozio di oggetti di Artigianato d’Eccellenza, esponendo e vendendo diverse manifatture di Artigiani e Artisti e lavori di Art-design in Vetrofusione realizzati da lei stessa. Ancora oggi continua la sua attività sperimentando trasparenze e magie del vetro, realizzando oggetti in prevalenza monocromi, che ricordano i colori trasparenti del Mare, legati alla Sua terra di Origine, con semplici inclusioni di ferro o rame per descrivere storie, che ama chiamare “Racconti sottoVetro”. L’ ispirazione nasce e si misura con la Geometria Sacra. Geo-metria, metrica e misura della Terra, resa Sacra dalla Sua intima unione con “Hòlos”, il “Tutto”. I suoi decori si ispirano all’ Amore e all’ Unione Sacra, togliendo tutte quelle “sovrastrutture” e “sottoconvinzioni” che ci separano dall’Amore Universale. I lavori risultano privi di decori eccessivi, proprio perché il “cuore” non ha bisogno di niente. Da “Cuore a Cuore” è un messaggio e un simbolo ricorrente nella sua linea estetica. Lo spazio bidimensionale della tela, lavorata in modo da imprimere o inglobare dei merletti, è il supporto sul quale viene fissato il lavoro in vetro, precedentemente decorato e successivamente vetrofuso.
AnimeFragili
La corrispondenza artistica di Anastasia Campanella con Toni Belfatto nasce nel 2020, durante l’anno della pandemia. Nel 2021 realizza quattro opere attraverso cui recepisce e restituisce la sua idea artistica ispirata al lavoro di Toni. «In un anno dove gli esseri umani venivano tutti colpiti da una tragedia, mi si chiedeva di rappresentare su tela quel che ho interpretato essere la “sofferenza” di chi si rivolge a Toni».
Anastasia o Titti, come la chiama chi le vuole bene, si sente una donna libera, sin da bambina. Sceglie il corso di scenografia dell’Accademia di Bari, perché la «decorazione e la pittura sembravano troppo soggettive, avevo bisogno di ordine ed armonia e poi c’erano già in casa un fratello artista e un papà creativo. Con Peppino ho lavorato 6 anni: è stato un crescere insieme e ho imparato che per fare l’artista bisogna avere orari, scadenze, pazienza, determinazione nel lavoro di squadra di un laboratorio, soprattutto per una donna». Ha imparato a tagliare il vetro e poi ha lavorato sul colore, creando arabeschi che avevano bisogno di ore ed ore di precisione infinita. Poi, quasi da autodidatta, ha sperimentato la tecnica della vetrofusione, cominciando da oggetti di uso comune, piatti, bottiglie, centrotavola, oggetti semplici ma che avevano bisogno di tanto lavoro di preparazione. Il filo di rame e il filo di ferro sono l’essenza del suo linguaggio. Da cuore a cuore è il filo che lega lei al suo committente, una corrispondenza d’amorosi sensi, come ai tempi di Decò. «Gli ordini e le richieste dei miei clienti sono stati la spinta a lavorare fino alla morte di mio padre». Un periodo buio in cui Anastasia sente il vuoto dentro. «Sono andata a vivere in campagna, isolandomi dal mondo, perché avevo bisogno di ricostruirmi». Fino al 2015, quando Titti comincia a realizzare le creazioni “sospese”, togliendo i ganci che ancoravano le opere al muro – sempre nel rispetto dell’utilità degli oggetti – e cercando «supporto in supporti diversi», come le tele grezze, le famose “tamburrate” della tradizione e del folklore pugliese, di iuta, tessuto, stoffa, che andavano rilavorate, riammorbidite dal colore, pigmentate con acqua marina, perché dovevano ospitare sua maestà il Vetro. Lo spazio bidimensionale della tela è lavorata imprimendo o inglobando dei merletti ovvero il supporto sul quale viene fissato il lavoro in vetro, precedentemente decorato e successivamente vetrofuso. Un vetro azzurrato come il mare a perdifiato che si arrampica sulle rocce della sua Polignano, anche lui pigmentato d’acqua di quel mare, il quale dovrà stare tre giorni nel forno ad 800°, tra preparazione, cottura e raffreddamento. E poi la lavorazione certosina, un merletto sul merletto, un ricamo di filo zincato che nella cottura annerisce oppure un filo di rame che brunisce e rilascia quella patina ambrata. La tela rimane negli anni e fa da sfondo ai vetri di Anastasia Campanella: all’inizio la tela era neutra poi ha trovato o ritrovato gli arabeschi dei merletti che si impregnano di pittura, devono ingessarsi, mentre «la mia matita è il filo di ferro».
«Queste di Toni sono opere singole e ognuna ha un’anima diversa. Poi, “rileggendole” alla fine, scopri che compongono un’opera unica per linee, simmetrie, forme, colori». I vetri sono due e sono posizionati ora in verticale ora in orizzontale; le trame dei merletti non sono state scelte a caso, sono due e si ripetono: ciò che fa la più marcata differenza è il disegno in fil di ferro, il cuore che va al cuore. Nella prima l’occhio e il labbro di Picasso sono una “licenza poetica e affettiva”: il richiamo al periodo cubista è evidente ma il mio tocco sta in quel cuoricino, vorrei che fosse un neo», la bellezza dell’imperfezione.
Nel seno e nella tricopigmentazione la fa da padrone il cerchio: tutti sappiamo che la testa è un ovale «ma la disegniamo come un cerchio», come i bambini. L’inestetismo segna un’ asimmetria – ma cogliendo un suggerimento di Toni stesso – una «asimmetria bella da vedere». Infine, è il «cuore di mamma» a dominare la scena artistica, forse l’opera più difficile per realizzazione. Una linea continua di un unico fil di ferro che non si stacca mai, come il legame tra madre e figlio, il cordone ombelicale che non si spezza e non si interrompe, oltre la vita e oltre la morte.
«Sono davvero onorata di aver fatto parte di questo progetto di Toni Belfatto e sono ad oggi soddisfatta dei miei lavori, ce li ho qui a casa, sulle mie pareti perché mi sono dovuta immedesimare nel dolore di chi deve ricorrere al trattamento estetico per ritrovare una propria identità, quando lo specchio non ci restituisce l’immagine che volevamo o avevamo un tempo. Nel paramedicale, ad esempio, il seno per una donna rappresenta la sua parte femminile più sensuale e più animale, da cui passa vita e nutrimento.
Dopo il dolore di un’asportazione resta una cicatrice a ricordarlo». È così che ci si focalizza su uno degli elementi della matita di fil di ferro di Titti Campanella: il tratto a zigzag è il simbolo della cicatrice, che segna e rimane, «poi Toni la cancella e ne fa un tatuaggio nel cuore», un ricordo indelebile.
Questo per dire che «il vetro è femmina» – giura Titti Campanella. Basta distrarsi un attimo che ti taglia perché vuole e ha bisogno di continue attenzioni». Tagliente e fragile il vetro, ma allo stesso tempo desideroso di attenzioni continue e resistente alle intemperie del tempo, come solo una donna sa essere, come Titti dimostra con le sue anime fragili, opere di vetro fuso che raccontano storie e ricami di vita.
“Scegliete di avere un lavoro fisso, di fare un mutuo, di dirvi ogni giorno che lo fate per la famiglia. Scegliete ancora di annientarvi, di giustificarvi con “questo è”. Alcuni hanno deciso, però, di correre dalla parte opposta”. Così si racconta Davide Scutece, nato a Gevelsberg, in Germania, nel 1974. “Libero” allievo di Ennio Minerva, uno dei più importanti pittori e scultori abruzzesi di metà Novecento, formatosi presso la scuola di Renato Guttuso. Libero in quanto Scutece non ha seguito un percorso ordinario di studi, ma ha sentito da sempre l’urgenza dell’espressione come un dovere “biologico” che il maestro Minerva ha assecondato per amicizia e lungimiranza. Figlio di una sarta, Davide da piccolo componeva patchwork di scampoli di tessuto, incollandoli su tela. Le clienti della madre trovavano eclettici questi “esperimenti” e li acquistavano a diecimila lire, arrotondando la spesa per le riparazioni o confezione dei vestiti. Muri, porte di casa diventano tele improvvisate, tra le grida di un papà che invitava a smettere “questi giochi da bambini”; quella necessità artistica - su cui Scutece insiste da subito - diventa, però, un ammasso di sentimenti controversi, rabbie represse, silenzi rancorosi, che trovano in “Scarabocchi” una delle sue prime manifestazioni. Scarabocchi è un must della linea artistica di Scutece che, per sua stessa definizione, riempie a carboncino, in poco tempo, uno spazio bianco per dare libero sfogo ad un’emozione, per dare forma ad un’angoscia. I sentimenti neri si accumulano negli anni, durante la maggiore età e l’età del lavoro: operaio in un grosso stabilimento per venticinque anni, mal sopporta la rigidità di protocolli alienanti, l’annullamento della creatività, la remissione a uomo-ingranaggio: tutta la sua protesta si concretizza in una graphic novel, “In nome del Lavoro” (NullaDie, 2020, prefazione di Dario Leone). Il licenziamento per insubordinazione ad un ordine e ad una consegna accende la fiamma artistica mai sopita: non passano mai più di due, tre giorni che Scutece – a suo dire - avverta l’immediata necessità di tornare a dipingere. Sdraiato a terra, su un cartone, l’artista riempie fisicamente il suo atelier di vasi e vasetti sparsi di colore che, al momento e all’occorrenza, trovano, attraverso una performance avvolta da un rapimento estatico, il loro spazio d’eccellenza sulla tela. Attraverso l’opera di Scutece l’interpretazione del lavoro di Toni Belfatto trova una sua ragione d’essere quando ci si sofferma a valutare ed esaltare i dettagli: occhi e volti riprendono vita; disegni sulla pelle raccontano storie; cicatrici smettono di gridare il dolore e si avvolgono -come in un ricamo- nella voglia di ricominciare; punti sul derma segnano gli inizi di nuovi percorsi, seminando stralci di vita. Scutece esalta le quattro specializzazioni della dermopigmentazione, dialogando con l’artista-artigiano della pelle, dopo aver fatto suoi i racconti di vita che passano quotidianamente sotto le mani di Toni Belfatto. “Senza l’emozione di sapere cosa c’è dietro un trattamento, non riuscirei più a fare questo lavoro” – ha scritto Belfatto. “I miei lavori sono improntati, realizzati in un giorno solo, per rendere più vero ciò che racconto. Mi piacerebbe essere sempre onirico, e dipingere tanto mi permette di diventare provocatore, rabbioso, eccitato, di attraversare tanti e differenti stati d’animo” risponde Scutece in un dialogo immaginario. Su questa sottile linea emotiva dell’atto creativo hanno trovato la loro intesa per una collezione d’autore a più voci, a più sentimenti, che dalle mani del dermopigmentista viene sublimata da quelle del pittore.
Oniricolor
L’utilizzo a schizzo di colori fluo e fosforescenti accende gli angoli bui, i dettagli scuri, le costruzioni grigie, illumina notti insonni. Le forme indefinite, trasparenti e senza struttura, si alternano a volti e ritratti luminosi per empatia: occhi trasognati, labbra rosso fuoco e chiome fluenti cedono la nettezza del tratto nell’altra metà della tela, quando i colori si sciolgono, le tempere si slavano, proiettando lacrime, sudore e sangue come possibili umori dell’altra faccia.
La pittura di Scutece non ha sovrastrutture, nonostante un sentimento anarchico e anticonformista di denuncia sociale, non insegue parole di rivendicazioni e verbosi manifesti; aliena da ogni sentimento di odio, rancore o rivalsa, dopo il processo catartico che vive nell’animo dell’artista, l’opera – progettata su diversi bozzetti – presenta una pulizia di forme che sbalordisce, come una regressione in uno stato di pre-coscienza infantile. La performance artistica diventa allora gioco d’infanzia, libero e senza schemi, lontano anni luce da qualsiasi imposizione; prende forma e vive autonomamente, consegnando all’opera una genuinità rara, una purezza originale. Materiali diversi – acrilico su tela con legno, iuta, stoffa – assecondano il tratto di Scutece che ha trovato una sua linea autentica, senza mistificazioni.
Una retrospettiva antologica sull’artista di Alessandro Obino non a caso si intitola “E finalmente torno ad essere quello che avrei voluto sempre essere” (ExagogicArt, 2015): un espressionista nudo e crudo, senza complicate simbologie, in cui l’emozione prevale sulla ricerca, il sentimento sulla raffinatezza tecnica. Le immagini prendono vita e si autoesaltano nello spazio di fondo sempre in una nebbia di colori neutri che tracciano limiti indefiniti, contorni frastagliati.
Il colore, nei sogni di Scutece, è lo sforzo della materia di farsi luce. E, tra sogno e realtà, tratti decisi e tratti solo appena accennati, si muove la collezione delle quattro tele che trasportano la DermoArt nella dimensione del sogno, di ciò che resta senza contorni definiti al mattino quando gli occhi si riaprono sul mondo reale.
Ejzenstejn ci ha insegnato la potenza rappresentativa e simbolica di un tracciato cromatico per raccontare una storia: i colori di Scutece si inseguono per diventare narrazione, per parlarci di Maia, la dea del risveglio primaverile; per superare il dolore della Venere ferita; per illuminare le teste ingrigite dal conformismo; per farsi suono nel grido di luce di un cuore nuovo.
Maia é risveglio, rigenerazione, albore primaverile; Maia é rinascita. Dal disfacimento di colore nasce a nuova vita, fissando nello sguardo azzurro l’anelito che le restituisce forza e vigore, pronunciando parole rosso vivo che parlano di coraggio e fermezza. Maia è la donna che si prende cura della donna, è il dolore che si trasforma in luce, che sa vagare e sostare, che conduce e illumina, che è tutt’uno con le stelle.
Da divinità a costellazione il passaggio è breve, se il passo è quello che lascia il segno, che si inscrive nella memoria per sempre. Ridisegnando il suo profilo di donna per la collezione DermoArt di Toni Belfatto, Scutece asseconda l’idea che la bellezza della donna, riflesso dell’anima, nasce nello sguardo e insegna al mondo un nuovo guardare.
Come si misura il dolore? Quanto tempo impiega una ferita a rimarginarsi? Si passa un’intera vita a cucire e ricucire le lacerazioni fino a quando gli strappi di ogni esistenza si cicatrizzano: in bilico su una fune o ai margini di un pendio la Venere ferita di Scutece porta i segni del tempo scanditi dal dolore.
La scelta stilistica e concettuale di Venus Vulnus è quella di ricomporre ciò che è stato smembrato perché la nascita di ogni Venere è rinnovamento, acquista sostanza e intensità se si portano con sé le ferite inferte. Una Venere che porta con fierezza e grazia le cicatrici del proprio passato, che si lascia vincere da un amore puro e confortante. I colori sulla tela si rincorrono sullo sfondo, in un’atmosfera senza tempo e senza spazio, sospesa nell’immensità. Il corpo delle donne ha qualcosa di sacro ed inviolato, va mostrato con vanto, sempre e comunque.
Le teste non pensanti dei Triconomisti di Scutece si disperdono tra routine quotidiana, falsi impegni e sterile raziocinio in un atto di denuncia aperta: le logiche del profitto dominano per ottenere il massimo vantaggio dal minimo sacrificio. Le grigie esistenze di manichini incravattati partecipano ad un gioco di rimandi seriali, con il rischio di un appiattimento definitivo se la scelta è quella della sottomissione a leggi che allontanano l’uomo dalla sua umanità. Ma punti di colore segnano la differenza, danno respiro e lasciano varchi di esistenze possibili; marcano le distanze da un conformismo spietato ed abietto, creano fessure di luce che squarciano il più coriaceo dei sistemi.
In Black heart scream il colore si fonde con un grido che ha la voce della liberazione, dell’affermazione di sé, della voce fuori dal coro. Si può gridare in silenzio, immaginandosi ognuno forza e intensità del timbro, della propria sofferenza e della successiva voglia di riscatto. Il cuore grida contro ogni nefandezza, grida la disperazione, grida la forza e la voglia di andare avanti, saturando di pigmenti, con pennellate energiche e travolgenti, il mondo circostante. Suono e luce per urlare se stessi, le proprie emozioni, la trepidazione commossa e pungente di chi si immola per tatuare un grido nell’infinito.
Luciano D’Angelo nasce nel 1945 a Pescara, città dove vive ancora oggi. L’infanzia passata in uno studio fotografico di un amico, l’odore acido della camera oscura, le foto in posa, le prime macchinette lasciano un imprinting che ha il sopravvento sugli studi in Economia: nasce così la passione per la fotografia professionale, in cui dimostra una spiccata sensibilità per gli aspetti naturalistici, ma il suo interesse vero è per l’incontro con l’altro. Rintracciare in ogni luogo «tracce umane» diventa una necessità. Le sue immagini raccontano storie di popoli e Paesi di vari continenti, dalla Patagonia all’Australia, dall’Islanda al Brasile, dalla Turchia all’Ecuador, dall’Algeria all’India. Così D’Angelo fa del reportage di viaggio una narrazione antropologica in cui le immagini sono pagine di diari, scritti letterari, articoli di giornale a cui le didascalie e i testi fanno da guida del locus. Il viaggio come dimensione naturale ed espressiva, «un esercizio necessario» - li definisce lui - «una palestra di vita e d’insegnamento». Trenta le pubblicazioni che espongono il frutto di una carriera pluridecennale. “Ogni viaggio ha avuto una valenza particolare nella mia vita” ma “ciò che resta per me è fare nuovi incontri, raccontare l’uomo nelle sue diverse sfaccettature, nella ricerca antropologica, questo è il senso della scoperta e di ogni viaggio”. Docente di «Estetica della Fotografia» dell’ISIA Pescara Design, membro della Giuria del Concorso Fotografico della Fondazione PescarAbruzzo, dal 1988 nel mondo giornalistico, in qualità di fotoreporter, ha messo a disposizione la sua arte per servizi fotografici per le maggiori testate italiane ed estere con servizi di cultura e viaggi: Touring Club Italiano, Airone, Bell’Italia, Bell’Europa, In Viaggio, Gardenia (Mondadori) fino al National Geographic Italia e Condé Nast Traveller (Rizzoli RCS). Autore di numerosi libri fotografici dedicati alla sua città d’origine e alla sua regione, l’Abruzzo, «Terra di santi e guerrieri», racconta le pietre e i legni delle chiese della transumanza, dei fiumi, dei boschi, dei monti, fino ai paesaggi marini dell’Adriatico selvaggio («Pescara ancora», 1988; «Abruzzo, l’avventura del paesaggio» 1993, «Miserere», 1997; «Abruzzo», 1999; «Tirino, la memoria del fiume», 2002; «La transumanza dei santi» 2002). Nel 1999 pubblica per Einaudi Storie d’Italia. Abruzzo che consacra e raccoglie in sintesi i suoi lavori precedenti e nel 2013 pubblica per la prestigiosa e storica Alinari di Firenze una raccolta antologica per immagini della sua terra nella collana “L’Italia delle regioni”. Anche la collaborazione con Toni Belfatto, in fondo, è un altro viaggio, in una dimensione metafisica solo apparentemente lontana: “se all’inizio c’era qualche perplessità, dopo dieci minuti al telefono con Toni ci siamo intesi sul progetto comune. In fondo siamo due “artigiani delle emozioni” e in quanto “artigiani” dobbiamo sporcarci le mani per accendere le sinapsi mentali. La fotografia non ammette aridità di esercizio: ormai la perfezione tecnica è raggiungibile con i mezzi di oggi ma “accendere lo sguardo” è un’altra cosa. Ho interrotto rapporti di lavoro quando non sentivo più quel comune sentire e quel sentimento di intenti e passione. Con Toni è diverso, ti travolge e ti contagia. È un’intelligenza “mercuriale.” Un progetto importante come i tanti nella sua carriera che D’Angelo ha inseguito, voluto e curato in ogni dettaglio. Un viaggio tra estetica e arte, fatto di infiniti percorsi che rendono quest’incontro tra due eccellenze d’Abruzzo una visione artistica unica d’insieme di due artigiani d’emozioni.
Umane Impressioni
La luce che governa e regola il mondo; prospettive di sguardo che giocano con ombre, riflessi e rifrazioni; pose di forme e oggetti su icone di colore. Tutto ciò fa parte del mondo di Luciano D’Angelo. La fotografia diventa arte del racconto-immagine quando ha come obiettivo la cattura del moment of life, il momento per elezione che non dipende né dal fotografo, né dal soggetto ritratto ma da una speciale armonia aurea che si crea in quel preciso, puntuale momento.
Umane impressioni è una collezione di questi momenti speciali che racconta la straordinarietà di alcune situazioni: la bellezza dipinta in un volto, in un pensiero nascosto che lascia intuire, intravedere, intellegere, cioè leggere tra le righe. La serie di quattro ritratti appunto emanano serenità, forza, affetto, coraggio al primo impatto: prime sensazioni che trapelano dalla luce studiata di D’Angelo in queste maschere di circostanza. Ma, come spesso accade, dietro i volti si nascondono le vite trascorse, i dolori sopiti, le sofferenze sepolte. Ognuno di noi sa rivelare quel tratto di aura che ci attraversa e sa nascondere l’angolo buio che solo opportunamente illuminato riesce a riemergere. Il racconto delle vite dei pazienti di Toni Belfatto ha trovato la forza di riemergere proprio qui, illuminando il momento, il moment of life.
I critici d’arte riconoscevano ai quadri del maestro fiammingo Vermeer delle speciali qualità di luce nello sviluppo creativo: “Ciò che mi affascina – spiegava Claudel – è quello sguardo puro, spoglio, asettico, ripulito da ogni traccia materiale, d’un candore quasi matematico o angelico, diciamo pure semplicemente fotografico. Ma che fotografia! Il pittore, isolato entro la sua lente, capta il mondo esterno. Il risultato è paragonabile alle prime apparizioni sulla lastra del dagherrotipo disegnate da una mano sicura: vale a dire dai raggi del sole”.
Nella fotografia la tecnica e la tecnologia contano fino ad un certo punto, “quello che non s ’impara è il senso della luce” – diceva Nadar, grande fotografo parigino di metà Ottocento – è la valutazione artistica degli effetti prodotti dalle luci diverse e combinate, è l’applicazione di questi o quegli effetti a seconda del tipo delle fisionomie che tu artista devi riprodurre. Quello che s’impara ancora meno, è l’intelligenza morale del tuo soggetto, è quell’intuizione che ti mette in comunione col modello, te lo fa giudicare, ti guida verso le sue abitudini, le sue idee, il suo carattere, e ti permette di ottenere, non già, banalmente e a caso, una riproduzione plastica qualsiasi, alla portata dell’ultimo inserviente di laboratorio, bensì la somiglianza più familiare e più favorevole, la somiglianza intima. E il lato psicologico della fotografia, la parola non mi sembra troppo ambiziosa”.
“I libri sono davvero come figli – dichiara D’Angelo – hanno una gestazione lunga, non nascono in due mesi; hanno bisogno di prendere corpo e anima dentro di noi; vanno poi cresciuti, educati fino a che si rendono autonomi e altro da noi”. Grande spazio e importanza emotiva tra le pubblicazioni trova «Ne Zaboravi Srebrenica» (2015) in cui oggetto è l’orrore della guerra in Bosnia, per non dimenticare, a cui ha fatto seguito la Mostra Non dimenticare Srebrenica. Un viaggio nella memoria violata di donne vittime di stupri, esposto in mostra presso Fondazione PescarAbruzzo (2015) e presso la Fondazione Benetton Treviso (2016). Spesso il racconto di Luciano D’Angelo esce fuori dagli stereotipi comuni sull’Abruzzo siloniano, soffermandosi su aspetti sinestetici che accomunano culture e mondi lontani attraverso la lente fotografica, come in “Zafferano/Zaafran” (2013) o “I Berberi del Marocco” (Mostra personale Trento Film Festival 2019).
Volti e facce dipinte nella luce circondati da un soffio misterioso, questo è il risultato finale dell’opera di Luciano D’Angelo suggestionato dall’uso del colore e dei chiaroscuri di Toni Belfatto nella dermopigmentazione come nel tatuaggio artistico: facce e volti che raccontano storie a cui come essere umani siamo profondamente e intimamente legati, istantanee di vita, di umane impressioni.
Alessio Palladino, classe 1990, nasce e vive a Pescara, in Abruzzo. A 19 anni, dopo il diploma, inizia a lavorare con il padre nel laboratorio di famiglia per il restauro di mobili antichi. La sua attenzione principale si concentra sugli arredi vintage. L’idea di far rinascere il nuovo da ciò che è considerato “passato” lo incanala in una direzione artistica ben precisa, verso lo studio delle forme e delle prospettive dell’oggettistica luxury del design moderno. Attraverso la pagina social di Instagram, acquisisce sempre più visibilità in poco tempo e riesce a realizzare una ‘collezione virtuale’ fatta di numerosi complementi d’arredo.
La filosofia di Alessio Palladino si basa sulla concezione che ogni oggetto può diventare materia su cui lavorare per farla rinascere, rivivere ed essere una nuova opera di design funzionale. La funzionalità diventa una mission per Palladino che cerca di sfruttare al massimo gli spazi vitali dell’oggetto per riconsegnare allo stesso il valore dell’ “utile”, senza sacrificarne la bellezza.
A dare il valore non è solo il riutilizzo ma l’idea di personalizzare l’oggetto. Il legno è materia nobile, va trattato da mani sapienti come lo sono quelle di Alessio che ne conosce la durezza, la spigolosità, ma anche il cuore, il tratto più delicato e malleabile. La lavorazione ed il taglio artigianale del legno esaltano le forme fino alla verniciatura a lucido, fredda, ghiacciata che restituisce una linea pulita, magnificata da colori accesi, ori, argenti che impreziosiscono il lavoro finale.
Da qui nasce la linea GhiaccioCuore.
GhiaccioCuore
Penso di essere un artista con i piedi per terra e la testa nel mondo: per me è fondamentale non solo avere idee, ma avere anche il coraggio di realizzarle». Il percorso evolutivo e trasformativo di Alessio Palladino si muove dall’intenzione di cambiare all’atto della trasformazione, passando dall’idea raccolta nei viaggi dal centro del Mediterraneo al Grand Canyon, ispirata da paesaggi mozzafiato fatti di luci e colori che esaltano i suoi progetti realizzativi: trasformare è concetto chiave nella sua linea artistica, come dimostra la sua pagina instagram ART_COLOR: nulla nasce per caso, anche se il primo motore è stato la volontà di spezzare e uscire dalla routine lavorativa nel laboratorio di falegnameria e laccatura di famiglia. «Ho cominciato ad aiutare mio padre sin da piccolo e ho imparato molto presto a guadagnarmi la vita. Lavorando nell’ambito dell’arredamento e del restauro, ho con gli oggetti un rapporto estremamente creativo, per cui recupero e rimaneggio tutto ciò che è vecchio e che magari gli altri buttano via».
Così ART_COLOR reinventa oggetti di vario tipo come bidoni, estintori, birilli, tavole da snowboard, skates e tanto altro personalizzandoli in modo da conferirgli una valenza sia estetica che funzionale. Il salto stilistico Palladino lo compie brandomizzando i suoi oggetti.
Ogni oggetto diventa materia da ricostruire, ripensare, rimodellare e reinventare, secondo una poetica dell’inventio cioè ‘scoprirne’ una vita nuova in quanto opera nuova. Si punta molto sul colore col quale si intende valorizzare dettagli e particolari: allora l’oro accostato al nero, l’argento col rosso, il bianco nero, il bronzo, il rosa, l’arancione, tutto esaltato da un effetto laccato lucido che incornicia e fa da sfondo al logo scelto per quell’oggetto.
In quanto figlio di un falegname, Alessio Palladino rivendica, fosse solo per un tributo a papà Aldo, la assoluta predilezione per il legno, ma – come afferma lui stesso – «un artista creativo non smette mai di fare ricerca per cui sperimento costantemente nuovi materiali e nuove soluzioni». Così prove, fallimenti e successi sono le fasi necessarie per sviluppare competenze e capacità al meglio e per proporre opere di qualità, frutto di una ormai conseguita maturità artistica.
Toni Belfatto ha di fatto compiuto un’azione da talent scout in questo caso, notando una delle prime opere di Palladino presso lo studio di un noto fotografo. «Toni ha subito creduto nelle mie capacità artistiche, oltre che nella mia persona, per questo ha deciso di commissionarmi diverse opere per il suo studio Belfatto Lab di Casoli». Ma il percorso di Alessio Palladino si prospetta in esponenziale evoluzione, accompagnato com’è da spirito critico, impegno costante e dalla soddisfazione dei suoi clienti per il raggiungimento di risultati sempre più appaganti.
La passione con cui vive il suo lavoro si riflette nella pratica instancabile di “esperimenti in atto” nel suo laboratorio: ricorda con affetto e quasi tenerezza la sua prima scarpiera customizzata che ha permesso di lanciare ART_COLOR online, iniziando questa nuova avventura. Questo progetto con Toni Belfatto nasce dall’incontro di questi due passionari e appassionati per l’arte e per il bello; nasce dalla voglia di realizzare pezzi unici e significativi in un percorso che coinvolgerà il confronto con diversi artisti. Ed è l’occasione giusta per proporre finalmente in una collettiva la prima mostra ‘dal vivo’, perchè «grazie al talento e all’intuito di Toni Belfatto – sostiene Palladino – ho la possibilità di entrare a far parte di un mondo a me nuovo in cui posso esprimere al meglio tutte le mie idee».